LECTIO DIVINA SUL VANGELO domenicale - 3
1° novembre 2015 – Solennità di tutti i Santi
Venite a me,
voi tutti che siete affaticati ed oppressi,
e io vi ristorerò.
Matteo 5,1-12a (Ap 7,2-4.9-14 - Sal 23 - 1 Gv 3,1-3)
Dio onnipotente ed eterno, che doni alla tua Chiesa la gioia di celebrare in un’unica festa i meriti e la gloria di tutti i Santi, concedi al tuo popolo, per la comune intercessione di tanti nostri fratelli, l’abbondanza della tua misericordia.
Spunti per la riflessione
Giù dalle nicchie!
Come sono contento!
Si potesse (ma sarebbe poco serio per un serioso scrittore di spiritualità!), inonderei questa pagine di faccine sorridenti degli emoticon! Contento perché, d’ogni tanto, il calendario riesce ad incrociare la liturgia e la stupenda Solennità dei Santi si celebra di domenica e non lungo la settimana.
Lo so, lo so, purtroppo per molti oggi resta la “festa dei morti” (che simpatica crasi!) che, invece, è domani, e i santi, probabilmente, saranno cacciati alla celebrazione della vigilia e quella disertata della domenica mattina.
Tant’è, questa cosa rivela quanto poco siamo legati alla gioia che deriva dalla santità e che ci è necessaria per fare memoria dei nostri defunti.
Santi e defunti vanno assieme, li celebriamo di fila (non insieme!) per fare il pieno di speranza prima di riflettere sulla morte.
Lasciamo i crisantemi sul tavolo della cucina e i lumini ecologici nel sacchetto della spesa e, prima di fare un salto al Cimitero monumentale, fermiamoci a meditare sulla monumentale festa di oggi.
Oggi è la festa dei santi, la festa del nostro destino, della nostra chiamata.
Noi crediamo che ogni uomo nasce per realizzare il sogno di Dio e che il nostro posto è insostituibile.
Il santo è colui che ha scoperto questo destino e l’ha realizzato, meglio: si è lasciato fare, ha lasciato che il Signore prendesse possesso della sua vita.
La nostra generazione è chiamata a riappropriarsi dei santi, a tirarli giù dalle nicchie della devozione in cui li abbiamo esiliati per farli diventare nostri amici e consiglieri, nostri fratelli e maestri. Quanti dispetti facciamo ai santi quando li teniamo nelle nicchie delle nostre chiese e cerchiamo di convincerli ad esaudirci a suon di ceri accesi! Loro che vorrebbero scendere per insegnarci a credere, come hanno saputo fare.
Il santo
La santità che celebriamo – in verità – è quella di Dio e avvicinandoci a lui ne siamo prima sedotti, poi contagiati. La Bibbia parla spesso di Dio e della sua santità, la sua perfezione d’amore, di equilibrio, di luce di pace. Lui è il Santo, il totalmente altro ma, ci rivela la Scrittura, Dio desidera fortemente condividere la sua santità con il suo popolo.
Dio ci vede già santi, vede in noi la pienezza che noi neppure osiamo immaginare, accontentandoci delle nostre mediocrità.
Scriveva Lèon Bloy, un grande letterato francese: non c’è che una tristezza: quella di non essere santi. Attendo Io Spirito Santo che è il Fuoco di Dio. Sono fatto per attendere continuamente e per rodermi nell’attesa. Da oltre mezzo secolo non sono stato capace di fare altro.
Quant’è vero!
Il santo è tutto ciò che di più bello e nobile esiste nella natura umana, in ciascuno di noi esiste la nostalgia alla santità, a ciò che siamo chiamati a diventare: ascoltiamola. Tiriamo giù dalle nicchie i fratelli santi, riportiamoli nella quotidianità della nostra vita, ascoltiamoli mentre ci suggeriscono i percorsi che ci portano verso la pienezza della felicità.
I santi non sono persone strane, uomini e donne macerati dalla penitenza, ma discepoli che hanno creduto nel sogno di Dio.
Il santo non è uno nato predestinato, uomini e donne come noi, si sono fidati e lasciati fare da Dio.
I santi non sono dei maghetti operatori di prodigi: il più grande miracolo è la loro continua conversione.
I santi non sono perfetti e impeccabili, ma hanno avuto il coraggio, che spesso noi non abbiamo, di ricominciare, dopo avere sbagliato.
I santi non sono dei solitari: dopo avere conosciuto la gloria e la bellezza di Dio, non hanno che un desiderio: quella di condividerla con noi.
Chiediamo ai santi un aiuto per il nostro cammino: Pietro ci doni la sua fede rocciosa, Francesco la sua perfetta letizia, Paolo l’ardore della fede, Teresina la semplicità dell’abbandonarsi a Dio. Così, insieme, noi quaggiù e loro che ora sono colmi, cantiamo la bellezza di Dio in questo giorno che è nostalgia di ciò che potremmo diventare, se solo ci fidassimo!
Santi subito!
E noi?
Se la santità è il modello della piena umanità, perché non porci questo obbiettivo?
Santo è chi lascia che il Signore riempia la sua vita fino a farla diventare dono per gli altri.
Festeggiare i santi significa celebrare una Storia alternativa.
La storia che studiamo sui testi scolastici, la storia che dolorosamente giunge nelle nostre case, fatta di violenza e prepotenza, non è la vera Storia. Intessuta e mischiata alla storia dei potenti, esiste una Storia diversa che Dio ha inaugurato: il suo regno.
Le Beatitudini ci ricordano con forza qual è la logica di Dio.
Logica in cui si percepisce chiaramente la diversa mentalità tra Dio e gli uomini: i beati, quelli che vivono fin d’ora la felicità, sono i miti, i pacifici, i puri, quelli che vivono con intensità e dono la propria vita, come i santi.
Questo regno che il Signore ha inaugurato e che ci ha lasciato in eredità, sta a noi, nella quotidianità, renderlo presente e operante nel nostro tempo.
Aperture
Contemplare il nostro destino, il grande progetto di bene e di salvezza che Dio ha sull’umanità ci permette di affrontare con speranza la faticosa memoria dei nostri defunti. Chi ha amato e ha perso l’amore sa quanto dolore provochi la morte.
Gesù ha una buona notizia sulla morte, su questo misterioso incontro, questo appuntamento certo per ognuno.
La morte, sorella morte, è una porta attraverso cui raggiungiamo la dimensione profonda da cui proveniamo, quell’aspetto invisibile in cui crediamo, le cose che restano perché – come diceva il saggio Petit Prince – l’essenziale è invisibile agli occhi.
Siamo immortali, amici, dal momento del nostro concepimento siamo immortali e tutta la nostra vita consiste nello scoprire le regole del gioco, il tesoro nascosto, come un feto che cresce per essere poi partorito nella dimensione della pienezza.
Siamo immensamente di più di ciò che appariamo, più di ciò che pensiamo di essere.
Siamo di più: la nostra vita, per quanto realizzata, per quanto soddisfacente non potrà mai riempire il bisogno assoluto di pienezza che portiamo nel nostro intimo.
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L’Autore
Paolo Curtaz
Ultimogenito di tre fratelli, figlio di un imprenditore edile e di una casalinga, ha terminato gli studi di scuola superiore presso l’istituto tecnico per geometri di Aosta nel 1984, per poi entrare nel seminario vescovile di Aosta; ha approfondito i suoi studi in pastorale giovanile e catechistica presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma (1989/1990).
Ordinato sacerdote il 7 settembre 1990 da Ovidio Lari è stato nominato viceparroco di Courmayeur (1990/1993), di Saint Martin de Corlèans ad Aosta (1993/1997) e parroco di Valsavaranche, Rhêmes-Notre-Dame>, Rhêmes-Saint-Georges e Introd (1997/2007).
Nel 1995 è stato nominato direttore dell’Ufficio catechistico diocesano, in seguito ha curato il coordinamento della pastorale giovanile cittadina. Dal 1999 al 2007 è stato responsabile dell’Ufficio dei beni culturali ecclesiastici della diocesi di Aosta. Nel 2004, grazie ad un gruppo di amici di Torino, fonda il sito tiraccontolaparola.it che pubblica il commento al vangelo domenicale e le sue conferenze audio. Negli stessi anni conduce la trasmissione radiofonica quotidiana Prima di tutto per il circuito nazionale Inblu della CEI e collabora alla rivista mensile Parola e preghiera Edizioni Paoline, che propone un cammino quotidiano di preghiera per l’uomo contemporaneo.
Dopo un periodo di discernimento, nel 2007 chiede di lasciare il ministero sacerdotale per dedicarsi in altro modo all’evangelizzazione. Oggi è sposato con Luisella e ha un figlio di nome Jakob.
Nel 2009 consegue ilbaccellierato in teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale di Milano con la tesi La figura del sacerdozio nell’epistolario di don Lorenzo Milani e nel 2011 la licenza in teologia pastorale presso l'Università Pontificia Salesiana di Roma, sezione di Torino, con la tesi Internet e il servizio della Parola di Dio. Analisi critica di alcune omelie presenti nei maggiori siti web cattolici italiani.
Insieme ad alcuni amici, fonda l’associazione culturale Zaccheo (2004) con cui organizza conferenze di esegesi spirituale e viaggi culturali in Terra Santa e in Europa.
Come giornalista pubblicista ha collaborato con alcune riviste cristiane (Il Nostro Tempo, Famiglia Cristiana, L’Eco di Terrasanta) e con siti di pastorale cattolica.
Nel 1999 è stato uno dei protagonisti della campagna pubblicitaria della CEI per l’8x1000 alla Chiesa cattolica. Come parroco di Introd ha accolto per diverse volte papa Giovanni Paolo II e papa Benedetto XVI nelle loro vacanze estive a Les Combes, villaggio di Introd.
Esegesi biblica
LE BEATITUDINI (5, 1-12)
Le beatitudini sono il cuore del messaggio di Gesù, per capirle bisogna lasciar parlare il testo. Innanzitutto Gesù sale sulla montagna e pronuncia il discorso circondato dai dodici e dalle folle: si tratta di una folla venuta da ogni dove, persino dalla decapoli e da oltre il Giordano. Il discorso, quindi, non è rivolto solo ai dodici o al popolo giudaico, ma a tutti.
Certo le beatitudini rimandano a Gesù. Ma quale significato egli vi attribuì? Pensiamo di riassumere il suo pensiero in tre affermazioni.
- Le beatitudini sono una proclamazione messianica, un annuncio che il Regno di Dio è arrivato. I profeti hanno descritto il tempo messianico come il tempo dei poveri, degli affamati, dei perseguitati, degli inutili. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza. Per Gesù sono al presente: oggi i poveri sono beati.
- C’è un secondo aspetto: con le beatitudini Gesù non solo proclama che il tempo messianico è arrivato, ma proclama che il Regno è arrivato per tutti, che di fronte all’amore di Dio non ci sono i vicini e i lontani, non ci sono emarginati: anzi, coloro che noi abbiamo emarginato sono i primi.
- Infine va detto che Gesù non solo proclamò le beatitudini, ma le ha vissute. Ecco perché la proclamazione delle beatitudini, è preceduta da un’annotazione generale che riassume l’attività di Gesù (4, 23-24): lo circondavano ammalati di ogni genere, sofferenti, indemoniati, epilettici. Ha cercato i poveri e li ha amati, preferiti. Egli fu povero, sofferente, affamato: eppure amato da Dio.
Sta qui il paradosso delle beatitudini: la vita di Cristo dimostra che i poveri sono beati, perché essi sono al centro del regno e perché – contrariamente alle valutazioni comuni – sono essi, i poveri, i crocifissi, che costituiscono la storia della salvezza.
Esaminiamo ore le singole beatitudini.
Beati i poveri. La differenza tra il “povero” di Luca e il “povero nello spirito” di Matteo non cambia nella sostanza. Matteo non intende certamente riferirsi a coloro che, benché ricchi, sono spiritualmente staccati dalle loro ricchezze. Molto probabilmente la frase echeggia Is 61,1 (v. Lc 4,18). Entrambi le beatitudini (di Mt e Lc) designano la classe povera che costituiva la grande maggioranza della popolazione del mondo ellenistico.
Il “povero in spirito” di Matteo pone l’accento più che sulla mancanza letterale di ricchezze, sulla bassa condizione dei poveri: la loro povertà non permetteva l’arroganza tipica delle persone ricche, ma imponeva loro un rispetto servile. Sono questi “poveri nello spirito” che ora sono “beati”.
Beati gli afflitti. Riecheggia in questa beatitudine la situazione descritta in Is 61,1.
La beatitudine si riferisce a coloro che non hanno alcuna gioia in questo mondo, e in questo senso essa sarebbe molto vicina e simile alla prima e terza beatitudine.
Si intendono qui molto probabilmente coloro che piangono per i mali d’Israele dovuti ai suoi peccati. La loro consolazione consisterà nell’esperienza della salvezza messianica.
Beati i miti. Questi fanno parte della stessa classe dei “poveri in spirito”, che non sono in grado di essere aggressivi. L’ideale della mitezza è descritto in termini concreti in 5, 39-42: “Se uno ti percuote la guancia destra…”. I miti possederanno la terra escatologica d’Israele, recuperata mediante le opere salvifiche di Dio. La frase riecheggia le promesse della terra fatte ai patriarchi dell’A.T.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia. La “giustizia” di cui bisogna aver fame e sete è un termine assai pregnante. In Mt essa designa la condizione di buoni rapporti con Dio, ottenuti con la sottomissione alla sua volontà. Nel giudaismo farisaico si pensava che questa condizione venisse garantita mediante l’osservanza minuziosa della legge secondo i modelli farisaici. Gesù afferma con insistenza che i suoi discepoli devono sforzarsi di attuare qualcosa di più perfetto: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e farisei …” (Mt 5,20).
Beati i misericordiosi. La misericordia è una caratteristica di Dio; Dio è fedele nonostante le infedeltà degli uomini. L’ ideale della misericordia o compassione ricorre spesso in tutti i vangeli. La beatitudine è illustrata dalla parabola del servitore spietato (Mt 18, 23-35). Le due opere di misericordia maggiormente sottolineate in Mt sono l’elemosina e il perdono. La ricompensa della misericordia è di ricevere misericordia.
Beati i puri di cuore. La purezza di cuore è contrapposta alla purezza levitica esteriore ottenuta mediante l’abluzione rituale: è questo un punto di numerose diatribe tra Gesù e i farisei. Ciò che si intende per “purezza di cuore” è spiegato in Mt 5, 13-20 (“Voi siete il sale della terra… La luce del mondo… Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone…). La ricompensa della purezza di cuore è di vedere Dio. Ciò non significa ciò che in teologia è chiamato la “visione beatifica”, ma l’ammissione alla presenza di Dio (v. Mt 18,10: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio”).
Beati gli operatori di pace. Questa parola ebraica “i pacificatori” significa “coloro che compongono i dissidi”. La riconciliazione è un compito spesse volte raccomandato nei vangeli: Mt 5,23-26 “Se presenti la tua offerta all’altare… và prima a riconciliarti”.
La ricompensa è di essere chiamati figli di Dio. È questo un titolo attribuito a Israele nell’A.T.; coloro che compongono dissidi sono israeliti autentici.
Beati i perseguitati per la giustizia. La persecuzione subita per amore della giustizia è la persecuzione che viene accettata allo scopo di mantenere i buoni rapporti con Dio mediante la sottomissione alla sua volontà. In questo ampliamento (5,11-12) della beatitudine Gesù viene identificato con la giustizia.
Egli sostituisce la legge quale unico mezzo sicuro per mantenersi in buoni rapporti con Dio. Tale rapporto causerà certamente la persecuzione (descritta in termini dell’esperienza della Chiesa primitiva), ma la ricompensa supererà ogni ricompensa precedente. La Chiesa succede ai profeti che furono perseguitati dal loro stesso popolo. La persecuzione a cui si allude qui è molto probabile l’offensiva scatenata dai giudei contro la comunità cristiana.
In conclusione è difficile per noi valutare il carattere paradossale delle beatitudini. Esse iniziano una rivoluzione morale che non ha ancora raggiunto la sua pienezza. Esse capovolgono tutti i valori convenzionali del mondo giudaico e romano-ellenistico e dichiarano beati coloro che non partecipano di quei valori. Vengono qui ripudiati non soltanto i valori esterni della ricchezza e della condizione sociale ma anche quei valori personali che sono ottenuti e difesi mediante l’auto-affermazione e la lotta. Le affermazioni generali delle beatitudini sono ampliati con esempi concreti del discorso.